Cos’è l’auto-compassione e perché può essere la chiave per la nostra felicità

Cos’è l’auto-compassione?

Se stai praticando la mindfulness da qualche settimana probabilmente avrai notato una maggior pace e un maggior appagamento nella tua vita. Tuttavia potresti anche sentirti scoraggiato, pensando di non avere tempo o disciplina sufficienti perché gli esercizi funzionino davvero. Soprattutto se stai attraversando un momento difficile, potresti dubitare che tale approccio ti aiuti veramente. Se dovesse essere così, per favore, non mollare tutto. Aggiungere l’auto-compassione è esattamente ciò che serve quando ti sembra tutto tetro e tutto ciò che hai è un vago bisbiglio che ti dice di abbandonare ogni speranza.

Può succedere che a volte sia più proficuo aver già abbandonato ogni speranza, così ciò che rimane è solo la curiosità di scoprire cosa verrà dopo. Se ti ritrovi in questa descrizione, immergiti con gentilezza questo articolo.

Ci sono tre abilità basate elencate da Christine Neff sulla tecnica mindfulness che possiamo usare per gestire emozioni difficili:

  1. La consapevolezza mirata
  2. La consapevolezza ad ampio raggio
  3. La gentilezza amorevole

Finora sono state affrontate le prima due, ma grazie alla terza saremo in grado di accogliere la nostra esperienza in modo caloroso e rassicurante.

La compassione compare quando  “il cuore freme” in risposta  alla sofferenza dell’altro,  facendo affiorare il desiderio di alleviarne la sofferenza. Quando noi stiamo soffrendo e sentiamo il bisogno di aiutare noi stessi, allora stiamo esperendo auto-compassione.

Quanto sono auto-compassionevole?

La compassione si sta rapidamente trasformando in un interessante oggetto di ricerca nella psicologia accademica. Uno degli obbiettivi della ricerca sull’auto-compassione consiste nel determinare quale sia la sua relazione con altre qualità personali, come il grado di soddisfazione della vita, la gestione del fallimento, l’autostima e la saggezza. La psicologa Kristin Neff ha sviluppato una scala per l’auto-compassione che viene usata nella maggior parte degli studi sull’auto-compassione. Questa scala contiene sei sottoscale che misurano gli elementi chiave dell’auto-compassione e sono: auto-gentilezza, umanità condivisa e mindfulness; in aggiunta i loro opposti auto-giudizio, isolamento  e sovra identificazione.

Auto-gentilezza

L’auto-gentilezza è l’opposto dell’auto-giudizio (il pensiero: “sono tollerante con i miei difetti e le mie inadeguatezze” nella scala è l’opposto di “quando vedo aspetti di me stesso/a che non mi piacciono, mi butto giù di morale”). Tutti noi abbiamo la tendenza a giudicare noi stessi quando le cose non vanno come vorremmo, aggiungendo insulti alla ferita. Una persona auto-compassionevole risponde alle difficoltà retrocedendo ad una posizione di calore e comprensione invece che di crudeltà e criticismo.

Umanità condivisa

Quando esperiamo una sventura, probabilmente crediamo di essere le uniche persone al mondo a soffrire in quella maniera. Inoltre, tendiamo a vergognarci della nostra sventura, come se ne fossimo noi i responsabili. Ma la vergogna isola. Quando le nostre emozioni più intense si placano e vediamo le cose da un’altra prospettiva, probabilmente scopriremo che quello che ci sta succedendo è il risultato di un universo causale piuttosto che derivato esclusivamente da “me” e dai “miei errori”. La nostra esperienza è condivisa con gli altri. Tale realizzazione di condivisione della condizione umana ci porta conforto dal nostro sentirci soli e isolati.

Se prendiamo coscienza di tale concetto, nella nostra mente potrebbero affiorare pensieri come: “quando mi sento inadeguato, provo a ricordare a me stessa/o che questo sentimento è comune alla maggior parte delle persone”.

Mindfulness

Come l’auto-compassione è implicita nella pratica della mindfulness, anche la mindfulness può essere trovata nell’auto-compassione. La mindfulness ci permette di accettare pensieri ed emozioni dolorosi in modo bilanciato, così come sono. L’opposto della mindfulness è la sovra identificazione che avviene quando perdiamo noi stessi nella reattività emotiva: il dolore restringe le nostre percezioni e “diventiamo” quella emozione, o la lotta contro di essa (“io non ce la faccio più”, “io devo farcela”, …). La consapevolezza della mindfulness ci aiuta a riconoscere quando stiamo soffrendo, quando stiamo criticando noi stessi  e quando ci isoliamo.

Il pensiero di chi ha ben chiaro tale passaggio potrebbe essere: “quando mi sento giù provo ad approcciarmi ai miei sentimenti con curiosità e apertura”. L’opposto è invece “quando mi sento giù, mi ossessiono e mi fisso su qualunque cosa sia sbagliata”.

Con Christine Neff a Londra - Luglio 2017

Con Christine Neff a Londra – Luglio 2017

L’auto-compassione è naturale?

Nonostante la nostra esperienza personale ci possa dire altrimenti, l’auto-compassione è la cosa più naturale di questo mondo. Nel profondo di ogni essere vivente si annida il desiderio di essere felice e libero dalla sofferenza. Ogni azione noi compiamo, persino quella che facciamo per aiutare gli altri, sembra derivare dal desiderio di far sentire meglio noi stessi. Perciò, la pratica dell’auto-compassione non aggiunge nulla di speciale al nostro repertorio comportamentale – fa semplicemente perno sul nostro innato desiderio di essere al sicuro, felici e in salute, ma in modo più saggio che tendere semplicemente al piacere a breve termine ed evitare il dolore a tutti i costi.

Prima di tutto dobbiamo riconoscere che ognuno di noi merita di sentirsi meglio. Quando ci sentiamo davvero male, la maggior parte di noi si chiude nell’auto-punizione piuttosto che immergersi nell’auto-compassione. Ci ricopriamo di auto-criticismo, agiamo come se la sofferenza dipendesse solo da un difetto personale piuttosto che essere qualcosa che tutta l’umanità condivide. Forse, se ci ricordassimo che desiderare di sentirci meglio è un naturale istinto umano, sarebbe meno probabile rimproverare duramente noi stessi quando le cose vanno male. Se ti ferissi ad un braccio puliresti e benderesti la ferita? Perché non fare lo stesso con il dolore emotivo?

L’auto-compassione è egoistica?

La maggior parte di noi si sente sempre un po’ in colpa quando presta attenzione a se stesso.  È vero che c’è sempre qualcuno che sta peggio ed è altrettanto vero che dovremmo aiutare gli altri ogni volta che ne abbiamo l’occasione. Ma questo non significa che non possiamo ritagliarci del tempo per prenderci cura di noi stessi. Tutti noi abbiamo bisogno della stessa cura e dedicare del tempo a noi stessi non è una mancanza morale. Quando diventiamo esperti dell’auto-compassione, pochi secondi o minuti sono sufficienti. Inoltre, mettere a confronto i nostri problemi con quelli degli altri può essere un modo sottile di negare ed evitare il dolore personale, che ci lega al dolore più a lungo del necessario.

Alcune persone sono preoccupate che l’auto-compassione sia una coccola privata e che ciò le isoli dagli altri rendendole egoiste e auto-centrate. In realtà ciò che accade è esattamente l’opposto: più sinceri siamo con noi stessi, più vicini ci sentiamo nei confronti degli altri. L’auto-compassione è il fondamento della gentilezza nei confronti degli altri, infatti più accettiamo le nostre difficoltà, più accetteremo quelle degli altri.

Accettare i nostri difetti non significa non modificare in meglio il nostro comportamento. L’accettazione è nel momento presente. Una piena accettazione di noi stessi, momento per momento, rende più facile adattarsi e cambiare in funzione di dove vogliamo arrivare.

Qualche volta, praticando l’auto-compassione, ogni fibra del nostro corpo ci dice che concentrarci su noi stessi è una violazione di un fondamentale codice morale. La resistenza culturale a prenderci cura di noi stessi può essere arginata dalla pratica della mindfulness che stimola la curiosità e l’introspezione. Ma a volte è necessario un sostegno cognitivo: “ ci sono quattro persone in famiglia; se a volte non mi concentro su di me, chi lo farà?”. Per usare un’analogia già sentita in aereo, se la pressione dell’aria in cabina precipita, è necessario mettere la maschera per l’ossigeno prima a noi stessi, poi agli altri.

Alcune persone credono che auto-compassione significhi concedersi auto-pietà. I primi stadi dell’auto-compassione possono includere la pietà, tuttavia l’auto-pietà ci estrania dal mondo e non è l’obiettivo del nostro lavoro, che invece vuole aprirci all’universalità della sofferenza.

Concludendo, l’auto-compassione non è egoistica perché non è interamente personale. In una stanza piena di persone ha perfettamente senso aiutare la persona che sta soffrendo di più, quella che conosciamo meglio, quella che siamo maggiormente in grado di aiutare. Qualche volta quella persona siamo noi, qualche volta è un’altro.

self-compassion ed egoismo

La mindfulness e l’auto-compassione

La pratica dell’auto-compassione è un particolare modo per ridurre il nostro innato impulso nel resistere al dolore e aggrapparci al piacere. L’elemento comune della mindfulness e dell’auto-compassione è il graduale spostamento in direzione dell’amicizia con il dolore emotivo. La mindfulness dice: “senti il dolore” e l’auto-compassione dice: “ama te stesso nel dolore”: due modi di abbracciare la nostra vita incondizionatamente.

La mindfulness può portare all’auto-compassione aprendoci a emozioni di affetto, perdono, tenerezza e amore. Questo è stato dimostrato da uno studio in cui è emerso che dopo aver preso parte al programma MBSR di Kabat-Zinn (otto settimane) i partecipanti riportavano un aumento significativo dell’auto-compassione.

Quanta auto-compassione integriamo alla mindfulness varia da persona a persona e da momento a momento. Alcuni scoprono il potere dell‘auto-compassione solo dopo decenni di pratica mindfulness, altri cominciano a praticare la mindfulness solo dopo aver scoperto l’auto-gentilezza.

Qualche volta siamo talmente alterati da non riuscire nemmeno a regolare la nostra attenzione focalizzandoci sul nostro corpo, sul nostro respiro. In questi momenti riconoscere la nostra agonia è il primo e cruciale passo per portare della gentilezza in noi stessi.

Una poesia persiana del XIII secolo paragona l’essere umano ad un albergo in cui ogni mattina può entrare un nuovo ospite, un giorno è la gioia, l’altro è la depressione. Tuttavia l’albergo deve dare il benvenuto a tutti ed essere grato ad ognuno di aver deciso di alloggiare lì.

Quindi non dobbiamo favorire nessuna emozione, semplicemente essere dei governanti gentili che fanno uscire i loro ospiti più felici di quando sono entrati.

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