“Chi sono io?”: il Sé spiegato dalla scienza

Il Sè

La parola Sé ha un importante ruolo sia nel linguaggio comune che in quello scientifico. Si parla di immagine di sé, controllo di sé, stima di se stessi, fiducia in se stessi. Ognuno di noi dice e pensa cose su di sé. Il concetto del Sé è strettamente legato alla nostra esperienza dell’essere delle persone, degli “IO”. Ma cos’è il sé? Molti neuroscienziati concordano nell’affermare che non esiste un Sé collocato nel cervello. Usando le parole di Wolf Singer, del Max Institute in Frankfurt, il cervello è “un’orchestra senza conduttore”. Il cervello brulica di attività, ma dove e in che modo sorga un senso unitario e separato del Sé rimane tuttora una domanda aperta. Io, dunque, chi sono?

Il senso del Sé sembra emergere, secondo la Relational Frame Theory, dal linguaggio. Impariamo presto, nella nostra vita, a parlare di ciò che facciamo perché è utile nel contesto sociale con cui interagiamo. Così, un bambino impara inizialmente a riferirsi a degli oggetti con una singola parola, ma poi piano piano le unità linguistiche si complessificano e sentiamo i bambini dire “Giada  mangia pane”, “Io prendere palla”, “Io voglio…”. Alcune parti di queste unità linguistiche sono variabili, altre rimangono permanenti. Ciò che non cambia è la connessione tra il comportamento del bambino e la parola “IO” o la parola che si riferisce a se stessi. Successivamente la parola “IO” non sarà più solo legata al proprio comportamento o all’ambiente esterno, ma inizierà ad essere collegata con le esperienze private ed interne. Così nella vita tutto cambia e si trasforma, quello che una persona fa, cosa qualcuno ha, dove qualcuno è, quando qualcosa è stato fatto e così via. Quello che però rimane costante e invariabile per ognuno di noi è la prospettiva da cui esperiamo il mondo e la vita. IO – QUI – ADESSO è l’unica prospettiva di cui possiamo fare esperienza in modo diretto ed è ciò che ci dà il senso di continuità nell’esperienza della vita. Questo implica che esistono altre prospettive da cui è possibile guardare il mondo, noi le possiamo immaginare o usare per prevedere il comportamento di qualcun’altro, ma non averne esperienza diretta.

Tre aspetti della nostra esperienza del sé

L’esperienza del Sé non è qualcosa di semplice e unitario: “C’è un arcobaleno”, “Io vedo un arcobaleno”, “Mi accorgo che i miei occhi vedono un arcobaleno”, “Sono la persona che sta vedendo un arcobaleno”, “Vedo che sto vedendo un arcobaleno da una particolare prospettiva e differenti prospettive sono possibili”. Dire e comprendere queste frasi implica l’uso di tre diversi aspetti del Sé.

 

1- Sé come contesto

La prospettiva della continuità del sé ha una peculiarità: non può essere osservata di per sé. non può, in altri termini, diventare l’oggetto che noi osserviamo. Possiamo scrivere o parlare di essa, come in questo paragrafo, e possiamo osservare le conseguenze dell’essere capaci di prendere questa prospettiva. Possiamo guardare un oggetto da una prospettiva, ma non possiamo osservare la prospettiva da cui osserviamo. Così, questo sé come prospettiva (chiamato anche sé come contesto) è privo di contenuto. E’ semplicemente un punto di vista da cui osserviamo, agiamo e viviamo le nostre vite. Ma il concetto di sé va oltre a ciò, infatti non esperiamo noi stessi costantemente “vuoti” di contenuto o come un fluttuare libero. Quando qualcuno ci chiede qualcosa su di noi, possiamo descriverci in diversi modi e possiamo anche osservare aspetti della nostra esperienza che potrei chiamare “ME”. Per questo individuiamo altri due aspetti del Sé, Il Sé come processo e il Sé concettualizzato.

 

2- Sé come processo

Il Sé come processo è il processo dell’osservare la nostra esperienza nei pensieri, nelle emozioni, nelle sensazioni, nei ricordi. Esiste sempre nel qui ed ora. E’ molto utile essere in contatto con il sé come processo. Ad esempio, sapere che sto provando rabbia e che quando mi arrabbio spesso agisco in modo impulsivo, può aiutarmi a mettere in atto una serie di “comportamenti di sicurezza” per evitare di fare “danni”. Se invece non mi accorgo che mi sto arrabbiando, è probabile che sarà la mia rabbia a guidarmi ciecamente verso un’azione o un impulso. “Conoscere sé stessi”, cioè conoscere e contattare il Sé come processo, significa anche essere in contatto con la propria storia. Così, alcune sensazioni non sono solo “sensazioni”, ma significano per noi “qualcosa” che dipende dalla nostra storia. Così avere le farfalle nello stomaco per qualcuno può essere piacevole, per qualcun altro spaventoso. Iniziare a “guardare” e saper contattare il sé come processo significa  avere maggior “controllo” sulle nostre azioni riducendo le reazioni automatiche e i giudizi che spontaneamente emergono come reazione a pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi.

 

3- Sé concettualizzato

Fin da quando siamo piccoli, addirittura da quando siamo ancora nel grembo materno, vengono raccontate molte storie su chi siamo. Una bambina tranquilla, tenera, oppure un bambino furbetto ma sveglio… o ancora un bambino intelligente ma pigro. Tutte queste definizioni sono generalmente sostenute da ottime ragioni: il segno zodiacale, il colore dei nostri capelli, quanto abbiamo dormito, come abbiamo trattato nostro fratello quando è nato. E così le storie su di noi accompagnano (e a volte precedono) chi diventiamo e chi siamo. Se all’inizio è il nostro contesto sociale che racconta chi siamo, piano piano iniziamo a raccontare a noi stessi la storia di chi siamo: sono sempre andata bene a scuola, sono intelligente; mi annoia studiare, sono “fisico”. Queste definizioni di noi stessi sono molto utili socialmente: presentarsi col proprio ruolo (mamma, psicologa, sorella…) o con alcune qualità (curiosa, creativa, affidabile,…) o con alcuni difetti (pigra, pessimista, tagliente, …) aiuta gli altri a porsi in un determinato modo nei nostri confronti, a fare delle scelte. Purtroppo però, chi siamo è generalmente un estremo riassunto che va a tagliare su molte sfumature e dettagli. Inoltre, il sé concettualizzato spesso implica un confronto sociale da cui emerge inevitabilmente il senso del giudizio: sono X, ma dovrei essere Y; chi è Z ha successo, ma io non sono abbastanza Z, etc.

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